Oggi prenderemo in esame la nostra azione all'interno di un testo letterario per osservarne come uno scrittore ha saputo adattare questo verbo alla situazione che doveva descrivere al suo pubblico.
A questo proposito ho scelto come libro "Se questo è un uomo" di Primo Levi, nel quale ho trovato un'applicazione di questo concetto che mi ha molto colpito e che ritengo molto significativa, di cui vi riporto un cenno:
"Nulla più è nostro: ci hanno tolto gli abiti, le scarpe, anche i capelli; se parleremo, non ci ascolteranno, e se ci ascoltassero, non ci capirebbero. Ci toglieranno anche il nome: e se vorremo conservarlo, dovremo trovare in noi la forza di farlo, di fare sì che dietro al nome, qualcosa ancora di noi, di noi quali eravamo, rimanga."
Da queste poche righe emerge la paura e la consapevolezza dello scrittore che, una volta fatto ingresso nel campo di concentramento, lui potrebbe non riconoscersi più a causa del trattamento che era rivolto ai deportati dai nazisti, i quali tendevano a privare i loro prigionieri di ciò che aveva costituito un collegamento con la loro vita prima di quel momento. La più grande paura di Levi è quella di sentirsi talmente estraneo a quella vita da smarrire anche la propria identità, per la cui conservazione ritiene sia doveroso combattere.
Potete trovare la citazione a pag.42 del seguente link:
Nessun commento:
Posta un commento